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Jobs Act: non c’è discriminazione in assenza di reintegra per i lavoratori in forza dopo il 7 marzo 2015

18 Marzo 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

In caso di licenziamento collettivo illegittimo, l’applicazione di un regime di tutela meno vantaggioso ai contratti a tempo determinato stipulati prima della data di entrata in vigore del decreto legislativo n.23/2015, convertiti in contratti a tempo indeterminato successivamente a tale data, è giustificato dall’obiettivo di politica sociale perseguito dal decreto legislativo citato, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato sarebbe giustificata dal fatto che il lavoratore interessato ottiene, in cambio, una forma di stabilità dell’impiego. Non risulta, pertanto, discriminante l’assenza di reintegra per i lavoratori in forza dopo il 7 marzo 2015 (Corte di Giustizia, Sent. 17 marzo 2021, n. C-652/19).

Procedimento
La ricorrente di cui al procedimento principale è stata assunta a partire dal 14 gennaio 2013, nell’ambito di un contratto di lavoro a tempo determinato. Il 31 marzo 2015 tale è stato trasformato in contratto a tempo indeterminato.
La società datrice di lavoro il 19 gennaio 2017 ha avviato una procedura di licenziamento collettivo che ha interessato 350 lavoratori, tra cui la ricorrente nel procedimento principale, e all’esito della quale tutti i lavoratori sono stati licenziati.
I lavoratori licenziati hanno presentato un ricorso dinanzi al giudice del rinvio – il Tribunale di Milano – in ragione del fatto che l’azienda aveva violato i criteri su cui il datore di lavoro deve basarsi, in caso di licenziamento collettivo, per determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale licenziamento. Il giudice del rinvio ha constatato l’illegittimità del licenziamento collettivo, ha ordinato il risarcimento dei danni e disposto la reintegrazione nell’impresa di tutti i lavoratori interessati, ad eccezione della ricorrente nel procedimento principale. Secondo il giudice infatti la dipendente non poteva beneficiare dello stesso regime di tutela degli altri lavoratori licenziati per il motivo che la data di conversione del suo contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato era successiva al 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo n.23/2015.
Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale emerge che, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto nell’ambito di un contratto di lavoro a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, il datore di lavoro deve, da un lato, reintegrare il lavoratore interessato nel suo posto di lavoro e, dall’altro, versargli un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto che copre il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali corrispondenti a questo stesso periodo, ma tale indennità non può essere superiore a dodici mensilità. I lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015 non potrebbero rivendicare una siffatta reintegrazione, ma solo un’indennità, che non dà luogo al versamento di contributi previdenziali. L’importo di tale indennità dipenderebbe, segnatamente, dall’anzianità di servizio del lavoratore e corrisponderebbe, a seconda dei casi, come minimo, a 4 mesi di retribuzione e, come massimo, a 24 mesi di retribuzione. A partire dal 2018, questo intervallo sarebbe stato esteso, rispettivamente, a 6 ed a 36 mesi di retribuzione.
Considerazioni
Nel caso di specie, anche se la ricorrente nel procedimento principale è entrata in servizio prima del 7 marzo 2015, il suo contratto a tempo determinato è stato convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data. Orbene, la conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, ai fini della fissazione del regime di tutela da applicare in caso di licenziamento collettivo illegittimo, sarebbe assimilata a una nuova assunzione. In quest’ottica, la ricorrente nel procedimento principale non può rivendicare, in forza della normativa nazionale, la reintegrazione nelle sue funzioni né il risarcimento dei danni, ma solo un’indennità.
Il giudice del rinvio si chiede, dunque, se tale situazione sia compatibile con la direttiva 98/59 e con la clausola 4 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, letti alla luce degli articoli 20 e 30 della Carta dei diritti fondamentali e all’uopo ha interrogato la Corte di giustizia europea.
Per quanto concerne la prima questione, la normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale procedura non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, e non può, quindi, essere esaminata alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, in particolare, dei suoi articoli 20 e 30.
Per quanto riguarda la seconda questione, occorre ricordare che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sancisce il divieto, per quanto riguarda le condizioni di impiego, di trattare i lavoratori a tempo determinato in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. Il punto 4 di tale clausola sancisce il medesimo divieto per quanto riguarda i criteri dei periodi di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di impiego.
In primo luogo, la Corte ha già dichiarato che la tutela accordata a un lavoratore in caso di licenziamento illegittimo rientra nella nozione di «condizioni di impiego» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro. In secondo luogo, in base a una giurisprudenza costante della Corte, al fine di valutare se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile, nel senso dell’accordo quadro, occorre stabilire, se, tenuto conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali persone si trovino in una situazione comparabile.
Spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a valutare i fatti, determinare se la ricorrente nel procedimento principale si trovasse in una situazione comparabile a quella dei lavoratori assunti a tempo indeterminato nel corso del medesimo periodo dallo stesso datore di lavoro. A tal riguardo, risulta in principio dal fascicolo sottoposto alla Corte che, prima della conversione del suo contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, la ricorrente nel procedimento principale era una lavoratrice a tempo determinato che si trovava in una situazione comparabile a quella dei suoi colleghi assunti a tempo indeterminato.
In terzo luogo, per quanto riguarda la sussistenza di una differenza di trattamento, il giudice del rinvio rileva che, se si dovesse tener conto della data di conclusione del suo contratto di lavoro a tempo determinato, la ricorrente nel procedimento principale potrebbe rivendicare la reintegrazione nell’impresa ai sensi della legge n.223/1991, più vantaggiosa dell’indennità cui ha diritto ai sensi del decreto legislativo n.23/2015. La ricorrente nel procedimento principale è stata, di conseguenza, trattata in modo meno favorevole dei suoi colleghi, assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore di tale decreto legislativo. Il fatto che la ricorrente nel procedimento principale abbia acquisito, dopo tale data, la qualità di lavoratore a tempo indeterminato non esclude la possibilità per essa di avvalersi, in determinate circostanze, del principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’accordo quadro.
Di conseguenza, occorre verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi il diverso trattamento. Secondo una giurisprudenza costante della Corte, la differenza di trattamento constatata deve essere giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale differenza risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti necessaria a tal fine.
Dal fascicolo di cui dispone la Corte e dalle risposte ai quesiti della Corte emerge che il governo italiano considera che il trattamento meno favorevole di un lavoratore nella situazione della ricorrente nel procedimento principale è giustificato dall’obiettivo di politica sociale perseguito dal decreto legislativo n.23/2015, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato sarebbe giustificata dal fatto che il lavoratore interessato ottiene, in cambio, una forma di stabilità dell’impiego.
Si deve constatare che rafforzare la stabilità dell’occupazione favorendo la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato costituisce un obiettivo legittimo del diritto sociale e, peraltro, un obiettivo perseguito dall’accordo quadro. Da un lato, la Corte ha già avuto modo di precisare che la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, dall’altro lato, il secondo comma del preambolo dell’accordo quadro sancisce che le parti a quest’ultimo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori. Di conseguenza, il beneficio della stabilità dell’impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori (v., in tal senso, sentenza del 15 aprile 2008, Impact, C-268/06, punto 87).
Per quanto riguarda, l’adeguatezza dell’assimilazione a un nuovo contratto della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, essa ha come effetto che, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, il lavoratore interessato non ha diritto alla reintegrazione nell’impresa, ai sensi della legge n.223/1991, ma solo all’indennità, meno favorevole, e entro un massimale, prevista dal decreto legislativo n.23/2015. Come rilevato dal governo italiano nelle sue osservazioni scritte, una siffatta misura di assimilazione appare tale da incentivare i datori di lavoro a convertire i contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, circostanza che, tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare. Se il nuovo regime di tutela istituito dal decreto legislativo n.23/2015 non si applicasse ai contratti che sono stati convertiti, sarebbe escluso sin dall’inizio qualsiasi effetto di incentivo alla conversione dei contratti a tempo determinato in vigore al 7 marzo 2015 in contratti a tempo indeterminato.
Infine, il fatto che il decreto legislativo n.23/2015 operi una regressione del livello di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato non rileva, di per sé, ai fini del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4 dell’accordo quadro. A questo proposito è sufficiente constatare che il principio di non discriminazione è stato attuato e concretizzato dall’accordo quadro soltanto riguardo alle differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in situazioni comparabili. Pertanto, le eventuali differenze di trattamento tra determinate categorie di personale a tempo indeterminato non rientrano nell’ambito del principio di non discriminazione sancito da tale accordo quadro.
Pertanto, come risulta da tutte le considerazioni che precedono, bisogna concludere che la clausola 4 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.

 

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